George Perec

Più di mille parole

Si dice che le fotografie valgano più di mille parole. Già, ma quante parole, cose, emozioni, significati può effettivamente essere contenuto in un singolo fotogramma? A dare una risposta a questa domanda ci prova nell’ottobre del 1974 George Perec.

Lo scrittore francese, fondatore del movimento “OULIPO”, si cimenta per tre giorni di seguito a descrivere con le parole un luogo a lui familiare: Place Saint Sulpice a Parigi. Lo fa in collaborazione con l’amico Pierre Getzler, che invece realizza rapidamente qualche foto della piazza.

Il tentativo di Perec di descrivere minuziosamente il luogo prescelto produce circa 40 pagine di annotazioni, un lungo elenco molto meno efficace delle istantanee del fotografo, che riesce in pochi minuti a racchiudere in alcuni fotogrammi la quasi totalità delle cose presenti.

Per tre giorni Georges Perec elenca ogni dettaglio, annota quello che accade in maniera meticolosa. Il risultato è “Tentativo di esaurire un luogo parigino”. Una lunghissima lista che non riesce a comprendere tutto ciò che invece le fotografie di Getzer riproducono nella loro totalità.

Ecco un estratto delle annotazioni dello scrittore francese:

– Lettere d’alfabeto, parole: “KLM” (sulla borsa di un passante), una “P” maiuscola che significa “Parcheggio”; “Hôtel Récamier”, “St-Raphaël”, “il risparmio alla deriva”, “Posteggio taxi”, “Rue du Vieux-Colombier”, “Brasserie-bar La Fontaine Saint-Sulpice”, “P ELF”, “Parcheggio Saint-Sulpice”.

– Slogan sfuggenti: “Dall’autobus guardo Parigi”. In terra: ghiaia pressata e sabbia. Pietre: i bordi dei marciapiedi, una fontana, una chiesa, case… Asfalto. Alberi (pieni di foglie, spesso ingiallite).

Non è che un tentativo. Esaurire non è possibile per la scrittura, resta un’ombra, una differenza, l’interpretazione dell’autore che passa dalla sua traduzione in scrittura.

Anche in fotografia, lo sappiamo, non esiste oggettività assoluta, ma la scrittura è ancora meno obiettiva. L’obiettività si perde nella trascodifica, la realtà, passando attraverso la scrittura, perde immediatamente ogni rapporto con il reale.

Una resa della scrittura, della parola di fronte alla fotografia. Nelle foto c’è molto di più di quanto non sia riuscito a descrivere lo scrittore. Il rapporto diretto con la realtà, l’indicalità dell’apparecchio fotografico, non mediato apparentemente dalla ragione, aveva vinto. La possibilità, anche inconscia, di scegliere, di selezionare ciò che recepiamo attraverso i nostri occhi ed elaboriamo attraverso la nostra mente, aveva inevitabilmente condensato l’esperienza visiva riportata da Perec sulla carta.

Nulla può però la fotografia quando rispetto alla cosa rappresentata, occorra ipotizzare un prima ed un dopo. Il tempo congelato dalla fotografia, prelevato dal flusso continuo della vita, per essere espanso in un futuro o in un passato ha bisogno della nostra mente. Cosa abbia fatto la bambina immortalata in una delle foto di Getzer prima o dopo quell’istante, nessuna fotografia potrà mai dircelo. Soltanto noi possiamo ipotizzare questo tempo esterno al fotogramma.

Questo George Perec lo sapeva bene, come sapeva bene che una immagine può svelarci solo il “cosa” ma non può addentrarsi da sola nell’ignoto del “come” e del “perché”.

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