Un rapporto complesso e controverso, quello tra futurismo e fotografia.
Nel 1912 in Italia, Anton Giulio Bragaglia denuncia il ritardo culturale con il quale alla fotografia viene riconosciuto il suo status di arte accanto alla pittura e alla scultura. L’anno prima, con il saggio “Fotodinamismo futurista”, mette in evidenza la distanza del suo lavoro sperimentale dalla fotografia convenzionale.
Le fotodinamiche come riflesso pulsante della vita moderna.
L’estetica teorizzata da Bragaglia è ben rappresentata in “La dattilografa”, ottenuta con una lunga esposizione in fase di ripresa che produce una traccia smaterializzata della mano e che rivela chiaramente le influenze di Marey e delle sue cronofotografie.
Il fotodinamismo
Il fotodinamismo è l’espressione più tipica del futurismo in campo fotografico. Riprende i postulati estetici che il movimento di Marinetti oppone all’arte tradizionale, ma anche alle esperienze delle altre avanguardie europee come il cubismo. Il movimento e la fluidità, tipici delle opere di Bragaglia, si possono facilmente ravvisare in “Forme uniche della continuità nello spazio” di Boccioni in campo scultoreo.
Tutte le scoperte visive della fotografia sono fatte proprie all’interno dell’estetica futurista: distorsione ottica, molteplicità di punti di vista, scomposizione o fusione cinetica.
Lo stesso Boccioni sarà, però, tra i principali detrattori della fotografia all’interno del movimento. A seguito di critiche mosse al futurismo replicò:
“Una benché lontana parentela con la fotografia l’abbiamo sempre respinta con disgusto e disprezzo perché fuori dall’arte. La fotografia in questo ha valore in quanto riproduce e imita oggettivamente, ed è giunta con la sua perfezione a liberare l’artista dalla catena della riproduzione esatta del vero”.
Ancora una volta la fotografia viene relegata tra le arti minori. Il suo unico merito, secondo Boccioni, è quello di esaltare l’artista, di renderlo libero. Un giudizio che appare oggi alquanto banale e contraddittorio per un movimento che avrebbe dovuto essere aperto alla sperimentazione di nuove tecniche e linguaggi espressivi.
Nella pittura in particolare, però, questo rinnovamento sembra frenato. Per i futuristi la fotografia è un medium incapace di trasmettere la percezione dinamica della realtà, incapace di restituire il divenire assoluto e il campo di forze in azione. Un mezzo legato al rigor mortis dell’immagine congelata.
La fotografia viene, quindi, vista come un concorrente diretto a differenza, ad esempio, del cinema. Questa ipotesi, formulata da Claudio Marra, sembra essere alla base del rifiuto, da parte della prima generazione di artisti futuristi, nei confronti della fotografia.
Un tardivo riconoscimento arriverà nel 1930 con il “Manifesto della fotografia futurista” di Tato, nel quale viene affermato:
“La fotografia di un paesaggio, quella di una persona o di un gruppo di persone, ottenuta con un’armonia, una minuzia di particolari ed una tipicità tali da far dire: sembra un quadro. È cosa per noi assolutamente superata”.
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