Staged photography

La staged photography è oggi una delle pratiche più diffuse nell’ambito del linguaggio visivo contemporaneo. I fotografi che si avvalgono di questo espediente narrativo divengono registi, scenografi, costumisti e a volte interpreti delle immagini realizzate. Le location possono essere ricostruite da zero o essere il risultato di lunghe ricerche. A monte di tutto questo, una decisiva fase progettuale per mettere ben a fuoco significati e messaggi da veicolare. La foto non viene estrapolata dalla realtà, come nella tradizione della fotografia del Novecento, ma costruita a tavolino dall’artista e modellata sulle sue scelte narrative. Tutto è controllato: luci, ambientazioni, posture dei soggetti e atmosfere. Spesso si tratta di produzioni complesse del tutto assimilabili a ciò che avviene nel cinema. Siamo in questo caso molto lontani dalla “cattura del momento decisivo” piuttosto si avverte una vicinanza con il teatro e la performance.

Anticipatori della staged photography possono essere considerati i tableau vivant realizzati già a partire dal XIX secolo. Uno dei più celebri è senza dubbio “Two Ways of Life” realizzato da Oscar Gustav Rejlander, un’allegoria raffigurante la giovinezza divisa tra le possibilità offerte da una vita virtuosa e le tentazioni più evidenti del piacere peccaminoso. Da un lato la saggezza, la religione e la virtù, dall’altro la dissolutezza e la sensualità. La foto, ispirata al dipinto di Raffaello “La scuola di Atene”, è composta da 32 immagini realizzate in tempi diversi. Venne esposta per la prima volta alla Manchester Art Treasures Exhibition nel 1857 e acquistata dalla regina Vittoria per regalarla al principe consorte Alberto. In precedenza, nel 1840, Hyppolite Bayard si era autoritratto nei panni di un morto affogato per contestare il mancato riconoscimento dell’invenzione del procedimento fotografico. Forsa la prima vera messa in scena della storia della fotografia.

“Two Ways of Life” realizzato da Oscar Gustav Rejlander

Narrazioni di taglio molto vicino a quello cinematografico, caratterizzano invece l’opera di Duane Michals che negli anni 70 del XX secolo produsse alcune delle sue sequenze più famose e riuscite. Vicine alle performance sono invece le fotografie di Cindy Sherman che tra il 1977 e il 1980 venne alla ribalta con i suoi Untitled Film Stills in cui impersonava gli stereotipi femminili più classici, dando vita ad un corpus di opere destinato a rappresentare le infinite maschere imposte dalla società e indossate dalla donna contemporanea.
Anche il reportage e il giornalismo non disdegnano l’uso della messa in scena. Oggi come ieri alcuni fotografi hanno fatto uso della staged photography per documentare guerre ed eventi di vario genere secondo i principi della docu-fiction.

La foto di Roger Fenton del 1855 “The Valley of the Shadow of Death” è la prima famosa fotografia di guerra, raffigurante una strada arida disseminata di palle di cannone sparate durante la guerra di Crimea. Esiste però una seconda foto della stessa strada senza palle di cannone, che ha portato gli storici della fotografia e, in particolare, la scrittrice e regista americana Susan Sontag, ad affermare che la famosa foto è una messa in scena. La foto senza palle di cannone è stata scattata per prima e le palle di cannone sono state sistemate e immortalate nel secondo scatto. Una sorta di still life en plein air.

 foto di Roger Fenton del 1855 "The Valley of the Shadow of Death"

Sempre restando nel campo delle immagini di guerra, impressionante per drammaticità e realismo, è l’opera di Jeff Wall. In una delle sue opere più rappresentative e conosciute “Dead Troops Talk (A vision after an ambush of a Red Army patrol, near Moqor, Afghanistan, winter 1986)”, realizzata nel 1992, mette in scena, una finta istantanea di un combattimento tra soldati in uniforme sovietica e mujaheddin afgani. L’atmosfera, ricostruita nei minimi dettagli, trasporta lo spettatore nel centro della scena anche grazie alle dimensioni del lightbox realizzato (229 x 417 cm). Una scena che ad una lettura più attenta rivela tutta la sua scarsa veridicità. Una “visione” della guerra e delle sue atrocità, come suggerito anche nel titolo, più che una riproduzione del reale.

Un posto a parte tra gli artisti fotografi che si dedicano a questo genere merita Sandy Skoglund. Le immagini create dall’artista americana lasciano lo spettatore disorientato in un limbo dove realtà e finzione spesso si confondono. Set di grande complessità vengono allestiti dalla fotografa in una commistione tra performance, scultura e fotografia in uno stile unico nel suo genere.

Sandy Skoglund

Oggi tra i maestri indiscussi della staged photography troviamo artisti indiscussi della fotografia Gregory Crewdson che ci costringono ad interrogarci, ancora una volta, sull’eterno dualismo della fotografia tra realtà e finzione.
Una fotografia che per sua natura è portata a mentire, costretta dai sui limiti intrinseci a mentire o comunque non dire fino in fondo la verità. Per Walter Guadagnini “il mezzo privilegiato per inventare realtà parallele, menzogne credibili, mondi fantastici” Ogni fotografia è quindi soltanto una rappresentazione parziale e soggettiva del mondo che ci circonda. Nel caso della staged photography la soggettività è ancora più marcata, forgiata dal fotografo su un palcoscenico ideale, orchestrata nei minimi dettagli e servita al pubblico.

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